Con una superficie di appena 13.000 chilometri quadrati (identica per farsi un’idea, a quella di una regione italiana come la Campania) la Cecenia contrasta geograficamente con la vastità dello spazio russo.
Paradossalmente, dalla fine del 1994 questo remota porzione del Caucaso settentrionale (regione un tempo chiamata ‘Ciscaucasia’) conosciuta solo da qualche sparuto specialista accademico.
È salita alla ribalta delle cronache essendo stata teatro di una guerra sanguinosa, di un conflitto di grande intensità, ma soprattutto di grande complessità… tra i più emblematici e problematici degli anni Novanta.
Se dal punto di vista russo la prima crisi cecena è apparsa ‘rivelatrice’, nel senso che ha spietatamente messo a nudo i limiti di Boris Eltsin, le ambizioni di uomini politici come Alexander Lebed e la mancanza di abilità (ma forse è più appropriato definirla incompetenza) di personalità quali il Maresciallo Pavel Grachev, pure all’attuale ripresa del conflitto in Cecenia va dato atto (nella sua tragicità per i civili) di avere rappresentato il trampolino di lancio di quello che sembra essere ‘l’uomo nuovo’ del Cremlino, cioé Vladimir Putin. E’ stato infatti proprio l’accelleratore della ripresa della guerra russo-cecena, in merito alla quale Putin ha dimostrato la più ferma intransigenza nei confronti dell’Occidente, ad avere catapultato il Primo Ministro Putin ai vertici del potere moscovita, cioè ad assumere la Presidenza ad interim in seguito alle dimissioni di Eltsin il 31 dicembre 1999.
Dal punto di vista ceceno invece, la crisi attuale, come già quella del 1994-1996, non può che inscriversi nella lunga e storicamente radicata tradizione di resistenza al giogo di Mosca: zarista, sovietico, o post-sovietico che fosse, e le cui tappe principali si distribuiscono sopra un orizzonte temporale di oltre due secoli, vale a dire dalla fine del XVIII secolo fino ai giorni nostri. Ne vogliamo ricordare in questo contesto i tratti salienti, non senza ricondurli a quelli che ci appaiono come i quattro momenti fondamentali di rottura nella storia della Cecenia e cioè: la colonizzazione, la deportazione, la desovietizzazione con l’indipendenza e infine la guerra del 1994-1996.
1785-1878. Un secolo di guerre contro i colonizzatori zaristi.
Nel 1784 l’esercito zarista occupava Petrovsk (oggi Makhachkala) e dopo avere conquistato la parte settentrionale dell’Azerbaigian e avere assunto il controllo del litorale caspico tra Petrovsk e Derbent, tentava di estendere le sue conquiste al Daghestan e alla Cecenia, ma tra il 1785 e il 1791verrà fronteggiato da una insurrezione guidata da Sheikh Mansur o Mansur Usurma. L’appellativo Sheikh sta ad indicare un maestro, un capo carismatico, cioè il leader di una confraternita sufi, ovvero di una comunità religiosa islamica i cui precetti si fondano sull’ascetismo e sullo spirito di sacrificio. Gli ordini sufi associano una componente mistica a una gerarchia di maestri e discepoli. Per originalità e diffusione, il fenomeno del sufismo (che si è diffuso in forme anche differenziate tra loro, in tutto il mondo islamico dall’Africa, al sub-continente indiano, dall’Asia centrale ex-sovietica, alla Turchia) viene anche definito con diversi sinonimi quali: ‘Islam parallelo’, ‘Islam eterodosso’, ordini dervisci, muridismo (da murid, cioè l’adepto di un ordine sufi) o tariqat (da tariqa, ‘la via’, sottintendendo ‘la via verso Dio’). Per la nostra area di osservazione, occorre tenere tuttavia conto che ancora nel XVI secolo praticamente la totalità dei clan ceceni era ‘animista’ e che tali clan si convertiranno all’islamismo solo nel corso della prima metà del XVIII secolo grazie all’attivismo dei discepoli della Naqshbandiya (una delle confraternite sufi più importanti fondata nel XIII secolo a Bukhara, in Uzbekistan).
Ed è appunto alla Naqshbandiya che Shaikh Mansur apparteneva e allo stesso modo l’insurrezione non era una semplice insurrezione, ma una vera e propria Ghazawat, (il termine locale per Jihad) cioè una ‘guerra santa’contro gli infedeli. Dopo avere inflitto alcune umilianti sconfitte alle truppe zariste, Shaikh Mansur viene catturato dopo un assedio di 61 giorni, trasferito a San Pietroburgo e imprigionato nella fortezza di Schlusselburg dove morirà nel 1794. I Russi potevano così occupare la parte meridionale del Daghestan e gran parte dell’attuale Cecenia, dove nel 1819 fondavano la fortezza di Grozny (termine russo che significa ‘la Terribile’). L’eredità di Shaikh Mansur verrà però raccolta da altri Imam murid, provenienti ed esponenti della medesima mouvance religiosa: il muridismo. Anche in questo caso il termine Imam, che nell’islamismo sunnita, ben diversamente da quello sciita, indica semplicemente colui che guida la preghiera collettiva, viene qui adottato come sinonimo di leader della comunità religiosa, in maniera sostanzialmente non dissimile dal già citato Sheikh. Il primo Imam, Ghazi Muhammad, verrà ucciso dai Russi nel 1831, mentre il secondo Hamza Bek, verrà assassinato nel corso di una ‘vendetta locale’ nel 1834, anno in cui al suo posto s’insedierà l’Imam Shamil, che avrà l’occasione negli anni a venire di dimostrare il suo talento di organizzatore. Shamil proclamerà una nuova Ghazawat contro gli infedeli (cioè i Russi), ma in nome e per conto del Califfo (cioè ‘il successore’ di Maometto) dell’Islam, cioè del Sultano Ottomano e procederà all’instaurazione di uno stato (Imamato) fondato sulla Sharia, ovvero sull’applicazione della legge coranica.
L’obiettivo sarà quello di estirpare l’adat, cioè il diritto consuetudinario locale riconducibile al costume pre-islamico che tollerava, ma addirittura in certe situazioni imponeva la ‘vendetta di sangue’ e che risultava ovviamente contrario ai principi ispiratori dell’entità statuale politico-religiosa da lui fondata. Inoltre Shamil procederà alla suddivisione dei territori da lui controllati sotto l’autorità dei naïbs, che responsabili nei confronti dello stesso Imam, ricopriranno nel contempo ruoli di autorità sia politica, sia militare e verranno affiancati da qadi (giudici islamici) e da muzartikat (capi della polizia segreta). Il sistema statale di Shamil, che stabilirà la propria roccaforte a Akhulgo nel nord del Daghestan nei pressi del confine ceceno per spostarla nel 1839 nel Grande Aul (Grande Villaggio) stavolta direttamente in territorio ceceno (e oggi chiamata Vedeno), sarà in grado di tenere testa ai Russi fino al 1859. Il 25 agosto di quell’anno l’Imam Shamil si arrenderà al Principe Alexander Bariatinski, ma verrà ricevuto con tutti gli onori a San Pietroburgo e nel 1866 presterà giuramento di fedeltà allo zar. Autorizzato a recarsi in pellegrinaggio a La Mecca, morirà a Medina nel 1871. Sottolineiamo il fatto che nella storiografia russa questo periodo viene chiamato delle ‘guerre murid’e che la periodizzazione dell’Imamato viene protratta da alcuni storici fino al 1864, anno in cui una riunione per la preparazione di una nuova rivolta cui parteciperanno 4.000 murid nell’aul ceceno di Shali, viene militarmente dispersa dai Russi che uccideranno 200 persone e ne deporteranno diverse centinaia in Siberia. A questo punto le ultime vestigia dello stato che fu di Shamil verranno meno, nonostante il fatto che l’autorità zarista deciderà di non interferire localmente e di lasciare in vigore la Sharia.
La delusione e lo scoraggiamento provocati dalla resa dell’Imam Shamil, produssero nelle popolazioni locali (quella cecena, quella inguscia e quella daghestana) un certo smarrimento e ne predisposero l’accettazione e la disponibilità verso nuove ideologie; il ‘vuoto’ creatosi venne riempito da un secondo ordine sufi quello della Qadiriya propagato dall’attività missionaria di Kunta Kishiev (d’ora in poi Kunta ‘Haji’).
Un pastore che viveva nel villaggio ceceno di Eliskhan-Yurt che, di ritorno da un pellegrinaggio a La Mecca, decise di sostare a Baghdad dove verrà ‘illuminato’ sul mazar (tomba di un santo, luogo sacro) di Abd Al-Qadir Al Ghilani, il fondatore appunto della tariqat della Qadiriya. Rientrato in Cecenia egli si farà propugnatore tramite le sue predicazioni, della non-violenza, della ‘non-opposizione al diavolo’ e dell’ascetismo mistico, quest’ultimo da raggiungere attraverso la trascendenza e il totale distacco dagli affari terreni, in una forma ancora più radicale della Naqshbandiya. Se l’effetto immediato sarà quello di porre le basi della grande rivolta del 1877-1878, della quale Kunta ‘Haji’ non potrà però mai venire a sapere poiché, arrestato poco prima della vicenda dell’aul di Shali e dichiarato insano di mente, verrà rinchiuso in un manicomio-prigione dove morirà nel 1867. Ma l’effetto nel lungo periodo sarà ben diverso e assai più duraturo. Una volta scelta quella che utilizzando un concetto del filosofo francese Gilles Deleuze potremmo definire come una ‘strategia dell’esodo’, cioè una strategia di sottrazione materiale al potere costituito, le confraternite sufi attraverseranno nella semi-clandestinità decenni di potere sovietico, cioè di campagne di propaganda anti-religiosa e di intimidazioni, promuovendo islamizdat (cioè l’editoria clandestina di testi religiosi), per ritornare alla completa visibilità e legalità più attive che mai, solo dopo il 1991 e la dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Esse, grazie anche alla pratica della solidarietà materiale tra gli aderenti, potranno presentarsi come le vere perpetuatrici del senso religioso, debolmente fronteggiate dalle istituzioni dell’Islam ufficiale sovietico, le nazarat (le Direzioni Spirituali, istituite da Stalin nel 1944) ormai decotte, generalmente asservite alla nomenklatura locale o peggio al potere centrale moscovita e quindi sprovviste di consenso popolare. Volendo si potrebbe delimitare questo discorso territorialmente; esso è infatti certamente valido per la regione caucasica e quella centro-asiatica, ma con distinzioni diverse e più precise. Se nella prima regione il fallimento e la repressione della rivolta del 1877-78 possono già essere assunti come ‘punto di non-ritorno’, come momento costituzionale di un orientamento verso la clandestinità, verso la ‘dissimulazione’ della fede e l’evacuazione del concetto di Ghazawat, nell’Asia centrale viceversa il peso del conflitto ideologico tra jadidismo (da usul-i jadid, cioè ‘nuovo metodo’, una forma di modernismo islamico, che tentava di ‘aggiornare’ la religione con la scienza e la tecnica moderne e per questo esaltava la funzione parzialmente ‘civilizzatrice’ della colonizzazione russa) e kadimismo (da kadim ‘antico’, cioè una concezione tradizionalista e conservatrice dell’Islam) impedì fino ai primi decenni del 1900 la messa in pratica di una medesima ‘strategia della fuga’.
In Asia centrale le confraternite sufi: Naqshbandiya. Qadiriya, Yasawiya e Kubrawiya parteciperanno in prima linea alla lotta contro la colonizzazione russa: assedio di Gök Tepe (Turkmenistan 1881), rivolta nel Fergana (Uzbekistan 1895), ad Andijan (Uzbekistan 1898), rivolta kazaka (1916) e rivolta dei Basmachi (‘banditi’, guerriglieri anti-bolscevichi, iniziata nel 1919 ma proseguita a lungo in tutta l’Asia centrale). All’instaurazione del potere sovietico anche le confraternite del territorio centro-asiatico sceglieranno ‘l’invisibilità’, ma questo confronto non deve sembrare inutile: il debole impatto del jadidismo nel Caucaso, viene evocato in questo contesto come sinonimo di maggiore determinazione e maggiore radicalità delle popolazioni di questa regione.
1944-1957. La deportazione di un ‘popolo punito’.
Nei decenni successivi saranno numerosi gli immigrati russi che si trasferiranno a Grozny, cittadina che inizierà a svilupparsi, anche economicamente, grazie alla scoperta di giacimenti locali d’idrocarburi (1893), mentre nel resto della regione relativamente pacificata, piccole rivolte sporadiche e dai caratteri micro-locali continueranno fino alla Prima Guerra Mondiale. Nel maggio 1917 alcune rappresentanze cecene e daghestane daranno vita a Vladikavkaz (la ‘dominatrice del Caucaso) ad una ‘Assemblea dei Popoli del Caucaso Settentrionale e del Daghestan’ ma in agosto i leader religiosi daghestani se ne separeranno, progettando il ripristino dell’Imamato di Shamil poi realizzato nel 1919 da Uzun Haji e da Sheikh Najmuddin Hotso, entrambi della Naqshbandiya, Come già Shamil anche questo stato si sottometterà (formalmente e unilateralmente) all’autorità del Califfo, cioè del Sultano Ottomano.
L’esercito controrivoluzionario ‘bianco’ di Denikin occuperà poi la Russia meridionale minacciando il Caucaso settentrionale e impegnando il combattimento con i 10.000 volontari di Uzun Haji. Più tardi nel febbraio 1920 le forze congiunte di Uzun Haji e dei bolscevichi del generale Gikalo sconfiggeranno Denikin. Ben presto gli attriti con i bolscevichi surriscalderanno la situazione e daranno vita a quella che Marie Bennigsen Broxup chiama ‘The Last Ghazawat: The 1920-1921 Uprising’ (l’ultima ‘guerra santa’, la rivolta del 1920-1921). La rivolta nel 1921 si conclude con l’amnistia dei rivoltosi e del loro principale leader Said Bek (un pronipote dell’Imam Shamil), si procederà così a diverse suddivisioni territoriali (Repubblica Sovietica della Montagna e Repubblica Socialista Sovietica Autonoma -RSSA- del Daghestan) mentre con rivolte minori nel 1926 e nel 1929 le popolazioni cercheranno di opporsi alla ‘collettivizzazione’ e alla ‘russificazione’. Nel 1936 la Cecenia unita all’Inguscezia, entrerà a far parte dell’Unione Sovietica come RSSA, nell’ambito della RSFS Russa. Un’ultima repressione benché ‘preventiva’ (14.000 arresti) si svolgerà nel 1937 e sarà detta Ezhovshchina (perché iniziata nel villaggio di Ezhov). Nell’inverno del 1940 scoppia in Cecenia, una nuova rivolta, ma stavolta a guidarla non sono dei leader religiosi, ma politici; si tratta di due nazionalisti Hassan Israïlov e Mairbek Sheripov.
Nel giugno 1941 la Germania nazista dichiara la guerra contro l’URSS e occupa rapidamente una vasta porzione di territorio sovietico raggiungendo a sud la Crimea. Un anno dopo Hitler lancia una prima offensiva in direzione di Stalingrado e una seconda verso il Caucaso con l’obiettivo di raggiungere i pozzi petroliferi di Baku. La progressione in Ciscaucasia è rapida, ma issata la croce uncinata sull’Elbrus i tedeschi non raggiungeranno mai Grozny, né Vladikavkavk (nel frattempo ribattezzata Ordzhonikidze) ma alcuni gerarchi come Rosenberg e Himmler avranno l’attenzione di pubblicare un ‘Appello al Popolo Ceceno-Inguscio’ considerato a Mosca come una delle prove della connivenza nazista nella rivolta del 1940. Nei mesi successivi alla battaglia di Stalingrado che si risolverà per l’Asse in una totale disfatta, i tedeschi evacueranno completamente il Caucaso. Nel corso delle operazioni belliche tuttavia i tedeschi verranno a contatto con diversi popoli caucasici dei quali tenteranno di sollecitare e strumentalizzare le attitudini indipendentiste e anti-sovietiche e cercheranno di reclutare truppe ausiliarie con un successo relativo nei suoi effetti.
Non si può certo definire una partecipazione di massa ed entusiasta quella con cui Sultan Kelet Giray (un protagonista della rivolta del 1920-21) aveva raggruppato i suoi reparti (la ‘legione dei musulmani ciscaucasici’) che combatteranno inquadrati nella Wehrmacht e al fianco dei Cosacchi anti-sovietici di Vlassov, indietreggiando fino in Carnia, dove catturati dagli Inglesi nel maggio 1945 verranno poi consegnati ai sovietici. Ma per contro nella regione si erano andati sviluppando anche movimenti partigiani ostili all’occupazione tedesca, benché di debole efficacia e per un periodo limitato (circa sei mesi). In seguito alla ritirata tedesca, Stalin ordina di deportare in Kazakstan e in Asia centrale diversi popoli accusati di ‘collaborazionismo’ con il nemico. Conosceranno tale sorte che già aveva colpito i Tedeschi del Volga nell’agosto del 1941, i Karaciai (novembre 1943), i Kalmucchi (dicembre 1943), i Balkari (marzo 1944), i Tatari di Crimea (maggio 1944) e i Meskheti georgiani (novembre 1944).
Per ciò che riguarda i Ceceni e gli Ingusci uno stesso provvedimento li colpirà il 23 febbraio 1943, quando verso sera inizieranno i rastrellamenti di tutti i 425.000 abitanti della repubblica che verranno deportati in ‘zone di popolamento speciale’, nelle quali verranno isolati dalle popolazioni locali, sorvegliati, privati dei diritti politici e civili, tra cui quello di produrre una propria stampa e di avere un’educazione nella propria lingua. Le condizioni di vita saranno estremamente precarie e la mortalità elevata, al punto che alcuni storici, stimano le vittime di questo periodo a circa un terzo del totale della popolazione ceceno-inguscia.
Su questi popoli scenderà l’oblìo come se essi non fossero mai esistiti e anche dalle carte geografiche scompariranno i confini delle omonime repubbliche, compresi quelli della Cecenia-Inguscezia, il cui territorio verrà assegnato in gran parte alla provincia russa di Stavropol (distretti minori andranno all’Ossezia settentrionale, alla Georgia e al Daghestan).
Toccherà a Khruschev, nel corso dello storico XX° Congresso del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) del febbraio del 1956, proclamare ufficialmente questa deportazione come uno dei ‘crimini staliniani’. Nel 1957 un decreto di ‘riabilitazione’ autorizzerà il ritorno di questi popoli nella propria repubblica d’origine, che verrà formalmente e de facto ricostituita. Nel 1959 il rientro poteva dirsi concluso, ma ben più difficile sarà rientrare in possesso delle terre e delle case occupate da immigrati russi. A Grozny città ormai maggioritariamente popolata da Russi si verificarono seri incidenti. Il ritorno alla terra d’origine sarà ancora più difficile per i Tatari di Crimea o impossibile per i Meskheti georgiani, ma un consistente numero di Tedeschi del Volga, sceglierà dopo l’indipendenza del Kazakstan di tornare in Germania.
Cenni etnologici: una società clanica, violenta, ma egualitaria e solidale.
Grazie a una vigorosa dinamica demografica i Ceceni tornarono a costituire uno dei più importanti ‘piccoli popoli caucasici’, dei quali all’ultimo censimento sovietico (nel 1989) 957.000 vivevano nell’omonima repubblica (insieme a 237.000 Russi e 164.000 Ingushi); al di fuori della quale esisteva una ‘diaspora’ stimabile in 165.000 individui in Russia (dei quali 58.000 concentrati nel Daghestan) e circa 50.000 nel Kazakstan, discendenti dei deportati non rientrati nel 1957-1959. La Turchia ospita una comunità di circa 10.000 persone.
I Ceceni sono i rappresentanti di un popolamento antico ed etnologicamente prossimo agli Ingusci, con i quali venivano etimologicamente raggruppati sotto l’appellativo di Vainakhs, Gli etonimi Ceceni (che si autodesignavano nakhci) e Ingusci (che a loro volta si autodefinivano ghalghay) sono stati attribuiti loro dai russi. I due pilastri identitari di questo popolo sono la lingua (della famiglia caucasica nord-orientale) e il diffuso senso religioso, contraddistinto dall’adesione al sufismo. Ma si tratta di un’unità che deve essere fortemente ridimensionata data l’esistenza di un potente fenomeno clanico: la popolazione è suddivisa in 131 diversi taips (clan). Il ‘fattore clanico’ simboleggia e descrive la qualità dei valori tradizionali della società cecena, che sono quelli di una democrazia patriarcale, egualitaria e fortemente solidale. Una società pertanto pervasa da arcaismi perché mai ‘feudalizzata’ nella sua storia; in altre parole non è mai esistita una ‘nobiltà’ o una ‘aristocrazia cecena’: tutte le decisioni importanti vengono prese collettivamente, ma una volta assunte anche coloro che inizialmente erano contrari vi si allineano..
Per contro lo stesso ‘fattore clanico’ è all’origine di innumerevoli rivalità, che come è tradizione sfociano in vendette. La vita sociale dei Ceceni si caratterizza da antagonismi di dimensione micro-locale che oppongono famiglie a famiglie, villaggi a villaggi, clan a clan. Ma se da un lato tali antagonismi possono essere circoscritti a forme di folklore locale, in una dimensione di ‘campanilismo caucasico’, dall’altro quando si tratta di difendere l’onore di una giovane o di soddisfare quello di un’offesa, esse possono evolversi in vere e proprie ‘faide’. Ne risulta, nella sociologia del vissuto quotidiano un elevato livello di violenza, visibile anche dal fatto che ogni individuo di sesso maschile porta con sé un’arma a partire dall’adolescenza e nella quale i ‘valori marziali’ sono piazzati in cima alle virtù individuali e collettive.
È solo facendo appello anche a questo tipo di fenomenologia che è possibile spiegare la combattività che i boïevichi (‘guerriglieri’) Ceceni hanno dimostrato nella guerra contro l’Armata Rossa del 1994-1996 e in quella attuale. Sul piano interno risulterà più chiaro se non evidente perché l’implosione del sistema sovietico e la crisi della leadership politica cecena fino a quel momento egemone, abbia scatenato una corsa al potere nella quale ogni clan ha cercato di sfruttare a proprio vantaggio le opportunità offerte dal nuovo contesto socio-economico (desovietizzazione, passaggio al mercato, privatizzazione e indipendenza), nel tentativo di occupare posti di responsabilità nell’esecutivo locale.
L’obiettivo era quello d’impadronirsi delle posizioni strategiche, dalle quali controllare le filiere clientelari e i traffici più svariati e ovviamente illegali (petrolio, armi, beni di consumo). E’ in questo quadro che ha potuto scatenarsi una rivalità tra clan, che paradossalmente condividevano tra loro l’obiettivo dell’indipendenza. L’aspetto clanico presente in Cecenia appare tout à fait paragonabile a quello intercorrente nel conflitto inter-tagiko, nel quale solo ad una prima e superficiale lettura la guerra opponeva ‘neo-comunisti’ a ‘islamisti radicali’. (Vedi Giampaolo R. Capisani, ‘Pace in Tagikistan e nuovi equilibri regionali’, in: Giano. Pace-Ambiente-Problemi globali, n° 26, maggio-agosto 1997, pp.19-24).
Malgrado la ‘riabilitazione’ del 1957 i Ceceni, come diverse altre popolazioni caucasiche o ‘ex-collaborazioniste’ continueranno ad essere vittime di pregiudizi da parte dei centri del potere sovietico nel corso degli anni Sessanta e Settanta. Una discriminazione alimentata anche nella sensibilità popolare da una certa stampa che utilizzava facili equazioni e luoghi comuni, come ‘ceceno = mafioso’ oppure ‘georgiano = mafioso’; una dinamica realmente xenofoba prepotentemente rilanciata sui media russi dopo gli attentati terroristici dell’autunno 1999 a Mosca. Sarà solo nel corso degli anni Ottanta che alcune personalità cecene inizieranno ad accedere a posti di responsabilità. I casi esemplari sono quelli di Djokhar Dudaïev che divenuto generale dell’aviazione, verrà nominato comandante di una base di bombardieri strategici in Estonia (una regione ‘sensibile’) e, quello in campo politico della brillante e bruciante carriera di Ruslan Khasbulatov (Vice-presidente del Soviet Supremo fino al 1991 e in seguito, Presidente del Parlamento Russo fino alla ‘crisi’ dell’ottobre 1993).
Verso la fine degli anni Ottanta la perestroïka e la glasnost determineranno la rinascita di un generalizzato attivismo nazionalista, che con caratteristiche diverse si manifesterà (oltreché nel resto dell’Unione Sovietica) nell’area caucasica e in quella dell’Asia centrale (ad Alma Ata capitale del Kazakstan nel 1986 si scateneranno dei moti anti-russi).
Nel 1991 tre avvenimenti determineranno una rapida evoluzione degli avvenimenti nel Caucaso settentrionale:
a) il rientro in Cecenia di Djokhar Dudaïev, il quale posto anticipatemente in pensione nel 1991, rientrerà nel ‘suo’ (malgrado sia nato in Kazakstan) paese e nel suo clan di origine (clan di Myaltchyi); subito riuscirà a fare convergere su di sé i consensi degli anziani di diversi clan che riterranno d’identificarvi una figura al di sopra delle parti. Egli viene così nominato leader del OKTchN (Congresso del Popolo Ceceno) il principale movimento nazionalista, ben presto verranno a crearsi degli attriti con dei clan inizialmente alleati.
b) Il fallimento del tentato putsch del 19 agosto 1991 a Mosca. Esso costituirà l’atto di morte dell’Unione Sovietica, ma nel corso del suo svolgimento Dudaïev sarà una delle rare personalità a dimostrare la sua solidarietà a Boris Eltsin, arrivando a lanciare un appello nel quale si esortava la popolazione, così come i riservisti ceceno-ingusci in servizio presso l’Armata Rossa ad opporsi ai golpisti. È solo grazie alla situazione di grande confusione creatasi a partire da questo episodio che Dudaïev potrà conquistare il potere in seguito alle dimissioni, il 6 settembre 1991 di Doku Zavgaïev (Primo Segretario del Partito Comunista Ceceno) e allo scioglimento il 15 dello stesso mese del Soviet Supremo locale. Da quel momento il paese verrà governato da un ‘consiglio provvisorio’ diretto dallo stesso Dudaïev.
c) I rivolgimenti istituzionali dell’autunno 1991. Djokhar Dudaïev viene così a trovarsi alla testa della RSSA della Ceceno-Inguscezia, ma gli Ingusci, circa il 12% del totale della popolazione si mostrano sospettosi e circospetti di fronte alle reiterate richieste secessioniste da parte del leader ceceno e decidono di autoproclamarsi ‘Repubblica Inguscia nell’ambito della Repubblica Socialista Sovietica di Russia’, confermando la loro opposizione all’indipendentismo di Dudaïev. Rapidamente, si arriva il 27 ottobre 1991 alle elezioni legislative e presidenziali cecene (cui ufficiosamente partecipa solo tra il 10-12% degli elettori) che determinano la vittoria dell’OKTchN di Dudaïev (85% dei consensi dei votanti) e in conseguenza del risultato elettorale il 1° novembre (con vigore il giorno successivo) viene proclamata la sovranità e il 27 dello stesso mese una ‘dichiarazione unilaterale d’indipendenza’ da Mosca da parte della Repubblica Cecena.
Gli Ingusci rifiutano di avvallare questa decisione e promuovono il 30 novembre un referendum consultivo sulla decisione di separarsi dalla Cecenia per dare vita a una ‘Repubblica Inguscia all’interno della Repubblica Socialista Sovietica di Russia’ approvata dal 90% dei votanti. Da parte sua Mosca moltiplica gli ultimatum ai ‘criminali ceceni’, dichiara illegali (poiché contrarie alla Costituzione) le elezioni del 27 ottobre e il 7 novembre proclama l’instaurazione dello ‘stato di emergenza’ in Cecenia, dove vengono spediti 2.000 uomini per ristabilire l’ordine. Delle milizie locali si organizzano, volontari convergono dal Caucaso, vengono lanciati appelli alla Ghazawat, la situazione si aggrava, finché 48 ore dopo a Mosca viene votata la fine del provvedimento di emergenza. Nei due anni che seguiranno le autorità di Mosca (ormai russe e non più sovietiche) alle prese con il rifiuto della Georgia e dell’Azerbaigian di aderire alla Confederazione degli Stati Indipendenti (CSI) accantoneranno il dossier dell’indipendenza cecena, comunque percepita come un pericolo incombente su tre diversi livelli.
a) Una minaccia politica sull’unità della Federazione Russa. Il timore in altre parole è quello che altre repubbliche autonome interne alla Russia, intendano imitare ‘l’esempio ceceno’, innescando una specie di effetto domino indipendentista. E infatti alcune regioni estremo-orientali e la Sakha siberiana vagheggiano qualcosa di simile, ma le più determinate si mosteranno le Repubbliche Autonome del Tatarstan e del Bachkortostan, che come la Cecenia rifiuteranno di firmare il nuovo Trattato della Federazione (il 31 marzo 1992); le prime due, dopo pressioni fortissime firmeranno il trattato rispettivamente nel febbraio e nel maggio 1994.
b) Una minaccia economica o più precisamente energetica. La Cecenia è attraversata da due oleodotti atttraverso i quali transita una parte degli idrocarburi estratti dai nuovi giacimenti kazaki (Tengiz) e azeri del mar Caspio (Chirag, Azeri e Güneshli) verso il porto russo di Novorossiysk; anche se vecchi e malandati questi pipelines hanno il vantaggio di esistere e anzi sullo scacchiere delle grandi manovre petro-strategiche che si stanno giocando nella regione rappresentano il ‘perno’ della strategia russa. Ma esistono per i suddetti idrocarburi due diverse altre opzioni di transito: quella georgiana (Poti) e quella turca (Ceyan) l’indipendenza e il clima di disordine instauratosi in Cecenia potrebbero favorire queste ‘vie alternative’, danneggiando gravemente gli interessi russi.
c) Una minaccia sulla sicurezza dall’estero. La crisi cecena è localizzata sul cosidetto ‘fianco meridionale’ della Russia in quel ‘ventre molle’ rappresentato dal Caucaso settentrionale. Nella regione si vanno addensando talvolta intrecciandosi, due tipi diversi, ma nuovi, di pericoli: una pressione islamica dai molteplici aspetti: rivitalizzazione delle pratiche religiose, attivismo delle confraternite sufi, presenza di ONG islamiche straniere, convergenza di volontari ‘afgani’ o arabi e appelli alla tradizione storica della Ghazawat contro gli ‘occupanti’ russi). Il secondo pericolo è il grande sviluppo del fenomeno mafioso che nel caos e nella particolare struttura sociale cecena e caucasica ha trovato l’humus sul quale prosperare ed estendersi regionalmente e nella stessa Russia.
Il governo di Dudaïev si caratterizza per l’accentuazione dell’autoritarismo e la tendenza al nepotismo clanico, mentre a Grozny circola un grande numero di armi ed una quindicina di milizie risultano attive nella repubblica. Nel tentativo di controbilanciare una immagine internazionale negativa, Dudaiev deciderà (similmente ad alcuni presidenti dell’Asia centrale) di adottare la religione islamica: giurerà la sua Presidenza sul Corano e sposterà il riposo settimanale dal sabato-domenica al venerdì-sabato, tentando di assumere la leadership caucasica dell’islamismo politico, in ragione della russofobia e di parole d’ordine pan-caucasiche (benché molto confuse).
Il 1992 sarà l’anno che vedrà le milizie cecene presenti in tutti i conflitti regionali: partecipazione alla guerra civile contro i georgiani in Abkhazia, implicazione nella Confederazione dei Popoli Caucasici, sostegno agli Ingusci nel conflitto contro gli Osseti, etc.. In questa fase tuttavia, la strumentalizzazione del fattore religioso appare oltre che come una boutade, anche come un diversivo alla degenerazione del tessuto socio-economico della repubblica; una situazione grave, che produce l’effetto di facilitare la costituzione di una eteroclita opposizione interna, nella quale sono riconoscibili tre componenti principali.
a) I filo-russi, cioè gli aparachiks e la nomenklatura del periodo sovietico esautorati nel settembre 1991 e guidati da Doku Zavgaïev, già Primo Segretario del Partito Comunista Ceceno. Altre figure di riferimento della fazione pro-russa saranno Umar Avturkhanov e il piccolo movimento Marcho diretto da Abdula Bugaïev. Ovviamente partecipano alla formazione di questo raggruppamento anche dei clan ceceni in virtù dell’apparteneza dei personaggi-chiave.
b) I grandi clan tradizionalmente dominanti, (Tchintchou, Chinkhoy, Benoy, etc.) che sono preoccupati dall’occupazione e dalla monopolizzazione del potere da parte di Dudaïev e del suo clan (Myaltchyi). Al clan di Tchintchou appartiene anche Bislan Gantemirov, per breve tempo sindaco di Grozny ed ex-alleato di Dudaïev che gli aveva affidato il comando della ‘guardia nazionale cecena’; egli romperà con il generale-presidente nella primavera del 1993, quando constaterà la perdita di alcuni posti-chiave fino a quel momento detenuti dal suo clan. I gravi disordini che nel 1994 trascinano la Cecenia sull’orlo della guerra civile, possono essere interpretati come una forma estrema di concorrenza esacerbata che oppone il clan presidenziale agli altri.
c) I delusi da Dudaïev cioè gl’indipendentisti convinti che denunciano la deriva autocratica intrapresa da Dudaïev e temono che la parola d’ordine dell’indipendenza venga snaturata e utilizzata unicamente allo scopo di coprire traffici mafiosi. Principali figure di quest’area sono Yaraghi Mamodaïev, Ibrahim Suleymenov e cui si uniranno alcuni intellettuali come Lekha Saligovim e Lechi Usmanov. A questo tipo di opposizione politica potrebbe essere ricondotto anche Ruslan Kashbulatov, che imprigionato dopo la ‘crisi parlamentare’ del 1993, verrà amnistiato e nel marzo del 1994 ritornerà in Cecenia, cercando invano d’imporsi sulla scena politica locale.
Gli eventi si accavallano e nella primavera del 1993 Mamodaïev rompe col campo presidenziale, formando un proprio governo; il 13 maggio 1993 il Parlamento vota la deposizione di Dudaïev e il 25 hanno luogo gravi scontri nella capitale con decine di vittime.
Circa un anno dopo l’opposizione sceglie la via della militarizzazione, un’opzione cui non sembrano estranee le manovre dell’FSK (Federal’noye Sluzhba Kontrarazvedki, servizi di controspionaggio federale) che coopta anche per ragioni personali (cioè di vendetta) Umar Avturkhanov e Bislan Gantemirov, così a partire dal luglio 1994 la Cecenia scivola nella guerra civile (in un contesto identico a quello delle rivalità e d’interessi economici interclanici già segnalato per il Tagikistan). Avturkhanov, sostenuto da militari russi, tenta un blitz sulla capitale il 26 novembre 1994, che si risolve in un disastro, poiché 300 dei suoi uomini saranno uccisi e verranno alla luce le implicazioni di Mosca. Dudaïev fino a quel momento fragilizzato e marginalizzato dal suo autoritarismo, ritornerà ad essere ‘l’eroe dell’indipendenza cecena’ e molti esponenti dell’opposizione rientreranno nelle sue file, anche a causa del fatto che l’11 dicembre 1994 tre colonne di blindati russi entreranno in Cecenia da tre direzioni diverse per ‘ristabilire l’ordine’ e per quella che avrebbe dovuto essere una ‘passeggiata militare’.
1994-1996 La prima guerra russo-cecena
L’operazione militare detta ‘di disarmo di formazioni illegali’ mobilita 30.000 uomini, con 230 carri e 450 blindati ed é la più grande mobilitazione bellica lanciata da Mosca dall’intervento in Afghanistan nel dicembre 1979 (sottolineiamo più esattamente che si tratta di un’ anniversario, poiché sono passati esattamente 20 anni da quell’avvenimento). Secondo fonti del Ministero Russo della Difesa i Ceceni schierano 15.000 boïevichi e 30.000 civili armati e inquadrati in milizie.
Chiariamo a questo punto chi sono esattamente i boïevichi: una caratteristica di questa guerra sarà la partecipazione di un numero considerevole di combattenti stranieri al fianco degli indipendentisti. I Russi li stimano in 6.000, ma la cifra sembra sproporzionata; il fatto certo è che diverse centinaia di combattenti non ceceni si sono battuti in Cecenia contro l’Armata Rossa. Tra i boïevichi possiamo distinguere tre principali raggruppamenti: i russofobi, principalmente costituiti da un centinaio di ultra-nazionalisti e banderisti ucraini già presenti in Moldova e in Abkhazia così come una cinquantina di nazionalisti baltici. I pan-caucasici, formati da nazionalisti turchi dei ‘Lupi grigi’ o della sezione azera dello stesso partito (Boskurt), ma soprattutto da diverse centinaia di abkhazi venuti a testimoniare la loro solidarietà ai Ceceni. Gli islamici radicali che benché non rappresentino che alcune centinaia di uomini provengono da tutto il mondo musulmano: tatari russi, mudjahiddin afghani, islamo-democratici tagiki, qualche arabo e molti afghani (cioè veterani della guerra afghana) tra cui algerini e bosniaci. La gran parte di quest’ultima componente sembra però provenire dai Ceceni della diaspora con passaporto giordano, siriano, libanese o turco.
Tornando alle operazione militari, la progressione delle unità russe verrà rallentata da blocchi stradali, negoziazioni e manifestazioni stradali, ma alla fine il 20 dicembre i primi reparti raggiungeranno Grozny nella quale restano solo 170.000 abitanti contro i normali 400.000. La prima battaglia di Grozny si scatenerà quello stesso giorno, ma l’assalto finale sarà lanciato solo il 31 dicembre a causa dell’accanita resistenza dei boïevichi. Le perdite russe sono elevate e nel gennaio 1995 verranno inviati rinforzi che porteranno a 58.000 il numero dei soldati russi impegnati nel dispositivo.
Quando nel febbraio 1995, al termine di sette settimane di combattimenti, la battaglia si conclude, nella città distrutta per metà, non resteranno che 80.000 persone in maggioranza russofoni e un primo bilancio stimerà in 1.000 i soldati russi caduti (ma molti sosterranno la cifra di 5.000 come più attendibile) circa 25.000 morti tra i civili e oltre 400.000 profughi (115.000 in Inguscezia, 90.000 in Daghestan e 200.000 nella stessa Cecenia). I combattimenti continueranno però nel resto del paese dove all’inizio della primavera i russi lanceranno una nuova offensiva riconquistando molte località nevralgiche come Vedeno (importante nell’immaginario ceceno perché fu il Grande Aul, cioé la capitale dell’Imam Shamil) e Chatoï (quartier generale di Dudaïev).
I costi finanziari e le perdite umane della guerra provocheranno dimissioni a catena tra i militari, tra cui quelle del generale Boris Gromov (veterano ed ex-comandante del corpo di spedizione afghano) mentre dalla Transnistria (regione secessionista della Moldova e aderente alla Russia), il generale Alexander Lebed comandante della XIV armata, farà sapere al collega Grachev che l’operazione ‘pone più problemi di quanti ne risolva’. Alla metà di giugno il comandante ceceno Shamil Basaïev (già veterano dell’Abkhazia) lancerà un raid rimasto epico; alla testa di un commando di un centinaio di boïevichi assalirà l’ospedale della località di Budennovsk, nella regione russa (russa, e non caucasica!) di Stavropol a oltre 150 chilometri da Grozny. L’intervento delle forze speciali provocherà la morte di numerosi ostaggi. Obbligate alla trattativa le autorità, Basaïev potrà rientrare in Cecenia con la maggior parte dei suoi uomini dove verrà accolto da eroe. Nonostante tutto, il 30 luglio 1995 si arriverà a stabilire un ‘cessate il fuoco’ che già il mese successivo si rivelerà inapplicabile per le numerose operazioni di guerriglia e gli atti di sabotaggio che continueranno in tutto il paese: si conteranno circa una trentina d’incidenti quotidiani, vale a dire dai tre ai cinque morti russi al giorno.
L’Armata Rossa procederà a una severa repressione che aumenterà la percezione popolare di essa come ‘forza d’occupazione’ e intaccherà profondamente la credibilità del nuovo governo pro-russo ‘di rinascita nazionale’ guidato da Salambek Khadjev e Doku Zavgaïev e nel quale entreranno anche Umar Avturkhanov e Bislan Gantemirov. E’ a questo punto che i boïevichi adottano la strategia ‘mediatica’ inaugurata da Basaïev. Quattro attentati vengono organizzzati: contro Oleg Lomov (rappresentante personale di Eltsin, 20 settembre), il generale Anatoli Romanov (comandante delle truppe in Cecenia, 6 ottobre), Doku Zavgaïev (il 20 novembre), mentre l’ultimo raderà al suolo il palazzo di Grozny nel quale ha sede il governo pro-russo e in cui periranno 11 persone (4 dicembre 1995). Con vari comunicati, la guerriglia farà sapere di essere pronta a colpire Mosca anche con il terrorismo nucleare e come prova di determinazione nel novembre 1995 viene fatto ritrovare nella capitale russa un contenitore radioattivo contenente radio-137, ma gli elementi radiottivi provenienti da un apparecchio relativamente diffuso nell’industria petrolifera non sono granché pericolosi, ma lo sono abbastanza per diffondere la psicosi dell’attentato.
Il 21 aprile 1996 i Russi riescono ad eliminare fisicamente Dudaïev, che viene localizzato grazie al segnale del suo telefono cellulare durante una conversazione con re Hassan II° del Marocco; la fattoria nella quale si trova viene distrutta con missili lanciati da una squadriglia aerea fatta decollare allo scopo. I Russi contano sulla decapitazione della guerriglia, ma una nuova direzione capeggiata da Zelimkhan Indarbïev s’impone alla testa degli indipendentisti finché il 6 agosto 1996 i boïevichi riconquistano Grozny infliggendo pesanti perdite alle truppe russe (247 morti) e circondando diverse migliaia di soldati nelle città di Argun e Gudermes. Mosca invia con urgenza Alexander Lebed in veste di plenipotenziario che dopo una serie di trattative riesce a concludere un accordo di pace definitivo il 31 agosto 1996. I termini dell’accordo prevedono il ritiro delle truppe russe e il congelamento dello status politico-giuridico della Cecenia fino al 31 dicembre 2001. Il bilancio della guerra è molto pesante: tra gli 80 e i 100.000 morti (10.000 boïevichi, e 15.000 russi, il resto civili), un costo tra i 12-15 miliardi di dollari e su un piano diverso, l’umiliazione della sconfitta per l’Armata Rossa.
Nel gennaio 1997 malgrado l’elezione alla Presidenza Cecena del ‘moderato’ Aslan Maskhadov ex-capo di stato maggiore della guerriglia cecena, la situazione interna si degrada. Si moltiplicano i casi di rapimento di giornalisti, uomini d’affari e volontari dei diritti umani in cambio dei quali viene chiesto un riscatto, al punto che numerose ONG e organizzazioni umanitarie lasciano il paese. L’8 dicembre 1998 quattro ostaggi, tre inglesi e un neo-zelandese vengono ritrovati decapitati; Maskhadov lancia un appello alla popolazione che si risolve in un nulla di fatto. In realtà dietro a questo stillicidio di violenza c’è anche anche un confronto/scontro ideologico interno alla frazione islamica della guerriglia. In esso si affrontano i tariqatisti, rimasti fedeli alla tradizione del sufismo locale e i wahhabiti cioé i seguaci della dottrina sunnita più rigorosa, che si oppone duramente agli sciiti e ai sufiti ispirata (e finanziata) dai sauditi, molto attiva nello spazio ex-sovietico, e in generale nel mondo islamico.
Malgrado i suoi sforzi Maskhadov non riesce a riportare l’ordine, ma riesce a concludere la riattivazione dell’oleodotto (9 settembre 1997), strategico per Mosca, per l’utilizzazione del quale i Russi s’impegnano a pagare dei diritti molto superiori a quelli riconosciuti a tutti gli altri territori e repubbliche della Federazione. Dalla primavera del 1999 l’attività di saccheggio dell’oleodottto praticato tramite dei fori nelle tubazioni assume un’ampiezza preoccupante e si moltiplicano gli scambi di accuse. Secondo Maskhadov si tratta di provocatori spediti da Mosca che intendono alimentare una strategia della tensione; secondo le autorità russe il pirataggio si svolge su scala troppo vasta per passare inosservato alle autorità che dunque sono ‘conniventi’ e non può che essere collegato al contrabbando (verso le repubbliche confinanti) e all’utilizzo dei fondi così raccolti per acquistare armi. Alla fine Mosca decide di trasportare il greggio azero con dei vagoni cisterna su una linea che dal Daghestan transita più a nord della Cecenia, ma non sarà evidentemente possibile spedire a Novorossiysk le stesse quantità di greggio ed ai costi precedenti. Viene rapidamente riattivato un progetto rimasto congelato (dall’allora Primo Ministro Boris Nemtsov) cioè quello di bypassare la Cecenia con un ‘oleodotto bretella’ che da Baku attraverso il Daghestan e dal Kazakstan attraverso le steppe calmucche, raggiunga Novorossiysk. In questo modo la Cecenia sarebbe estromessa dal gioco e messa in condizioni di non nuocere. Il via ai lavori viene dato con urgenza nel maggio 1999.
Inserito in questo quadro forse è possibile capire quali erano le reali intenzioni dei boïevichi quando nell’estate del 1999 hanno lanciato i primi blitz contro alcuni villaggi del Daghestan, proclamandovi uno ‘stato islamico’; essi avrebbero impedito non solo il trasferimento ferroviario giornaliero del greggio, ma anche la realizzazione dell’oleodotto ‘bretella’ che avrebbe aggirato la piccola repubblica. Il 7 agosto 1999 l’agenzia Itar-Tass diramava la notizia che alcune centinaia di boïevichi provenienti dalla confinante Cecenia aveva occupato i villaggi di Botlikh e Mekhelt, situati in una zona montuosa del Daghestan e vi avrebbero instaurato uno ‘Stato Islamico del Daghestan’ In seguito all’intervento di forze di polizia e sembra in mancanza di un reale sostegno popolare si erano ritirati il 24 agosto per ripartire all’offensiva all’inizio del mese di settembre, occupando altri e diversi villaggi. Secondo il quotidiano russo Izvestia questi gruppi armati sono riconducibili ai comandanti Shamil Bassaïev e al giordano di tendenza wahhabita Khabib Abd Ar-Rahman Khattab, i quali intendevano entrare in territorio daghestano allo scopo di ‘“liberarlo” dall’influenza di Mosca e stabilirvi uno “Stato islamico”’. Lo stesso giornale riferisce che Khattab avrebbe dichiarato ‘di essere pronto ad una guerra dei trent’anni contro i Russi’. In settembre un attentato distruggeva un palazzo a Buïnask (nel Daghestan meridionale) abitato da militari russi e dalle loro famiglie, provocando 20 vittime e un centinaio di feriti, mentre alla fine del mese circa 2.000 boïevichi occupavano dei villaggi attorno a Khasaviurt (cittadina dove venne firmato l’accordo di pace dell’agosto 1996) per evacuarli alcuni giorni dopo.
Il passaggio successivo si svolge a Mosca dove tra ottobre e novembre del 1999 diversi attentati terroristici radono al suolo palazzi interi, provocando trecento morti e altrettanti feriti: la ‘psicosi cecena’ è totale. Gli autori di questi atti criminali restano sconosciuti e le indagini sono ancora in corso, ma le autorità lasciano trapelare la ‘pista cecena’e l’opinione pubblica si convince rapidamente che i responsabili non possono che essere dei Ceceni appartenenti al network dell’islamismo radicale.
Sarà pertanto in un contesto di consenso generalizzato che il governo di Mosca potrà lanciare prima in Daghestan e poi in Cecenia, una ‘operazione di lotta contro il terrorismo internazionale’; l’obiettivo sarà quello di rilanciare la guerra in Cecenia e riconquistare Grozny, ma solo perché era necessario ‘rispondere’ agli attentati dell’autunno e questo nella misura in cui, perfino una personalità politica come l’ex-primo ministro Egor Gaïdar (strenuo oppositore della prima guerra cecena del 1994-1996) li ha qualificati come la ‘prima aggressione contro il territorio russo, dall’attacco dei nazisti nel 1941’. Questa seconda guerra cecena è approvata (secondo un sondaggio del ‘Centro Studi dell’0pinione Pubblica in Russia’ di Mosca diretto da Yuri Levada) dal 70% della popolazione che sostiene oggi massicciamente l’intervento, così come da intellettuali di estrazione più diversa, in un orizzonte che va da Alexander Solgenitsin al mite e pacifico violoncellista e direttore d’orchestra Miatjslav Rostropovitch. Il campo pacifista che nel 1994-1996 si era rapidamente organizzato e godeva di una buona ‘visibilità mediatica’ e di ‘voce in capitolo’ è oggi letteralmente scomparso. Non ci sono le ‘madri in nero’ dei soldati coscritti sulla Piazza del Cremlino, l’associazione pacifista Memorial é divisa e fragilizzata dal disaccordo che ha portato Yelena Bonner, la vedova di Sakharov, a lasciare l’associazione stessa, non esiste una voce dissonante nei media. Gli appelli lanciati da Mosca da alcuni intellettuali francesi come Bernard Henry Levy e André Gluksman che hanno accusato Putin di ‘crimini di guerra’ sono caduti nel vuoto, anzi sono stati coperti di ridicolo. La stessa fonte di sondaggi sopracitata ci fa sapere inoltre che all’inizio di novembre alla domanda: ‘Quale sarebbe la sua attitudine se l’esercito, la polizia, l’FSK decidessero d’instaurare l’ordine nel paese?’ Il 60% degli intervistati ha dichiarato che ‘avrebbe sostenuto l’iniziativa’. Si tratta della stessa percentuale d’intervistati che ritiene che ‘la Russia negli ultimi anni sia stata umiliata dagli Occidentali’.
Vladimir Putin in occasione poche settimane dopo la sua nomina il 9 agosto 1999 (quarto primo ministro in soli 18 mesi) ha incoraggiato l’escalation militare in Cecenia e come risultato in brevissimo tempo è divenuto l’uomo più popolare del paese; il vincitore delle elezioni del 19 dicembre 1999, mentre ha già pesantemente ipotecato le elezioni presidenziali del 26 marzo del 2000. Putin ha già lasciato intendere che gli Stati Uniti, concludendo in via definitiva l’accordo con la Turchia, sul quale si sono subito allineati Azerbaigian e Kazakstan per l’evacuazione del greggio del mar Caspio verso la ‘via turca’ di Ceyan, danneggia il suo paese ed avere firmato la realizzazione di un oleodotto alternativo (promosso congiuntamente da ENI -Ente Nazionale Idrocarburi- e Gazprom) si è mostrato in perfetta sintonia con Eltsin sia in novembre al summit dell’OSCE a Istanbul che in dicembre a Pechino (paese con cui la Russia va delineando una nuova entente cordiale, che dovrebbe preoccupare non poco Washington). In queste occasioni pubbliche, Vladimir Putin ha ribadito che la Cecenia rappresenta ‘un affare interno della Russia’, ma ha voluto spingersi oltre sostenendo con un chiaro messaggio che la Russia deve ‘riportare l’ordine al suo interno e a Grozny e imporre il rispetto all’esterno!…il popolo russo deve ritrovare la sua dignità’. Le truppe dell’Armata Rossa che a partire da dicembre hanno rioccupato quasi interamente la Cecenia e dal 29 dicembre stanno combattendo a Grozny, appoggiate dalle milizie cecene pro-russe di Bislan Gantemirov (e chi altri sennò) si sono sentite rinfrancate da queste dichiarazioni. Da parte sua, Vladimir Putin la sera di Capodanno del 1999, poche ore dopo avere assunto la Presidenza ad interim della Repubblica Russa anziché appoggiare il suo sedere sulla poltrona della loggia presidenziale del Teatro Bolshoï, è volato a Gudermes (seconda città cecena) a 30 km da Grozny, dove tra il frastuono delle cannonate ha decorato numerosi soldati russi. Forse si è davvero aperta per la Russia l’‘era Putin’, ma se ha ragione il politologo russo Andrei Piontkovski quando dice che: ‘Putin simboleggia la rinascita della Grande Russia, il dinamismo militare e la vittoria sulla “Cecenia terrorista”’ allora significa che questa nuova era sarà sicuramente più inquietante ed incerta dell’‘era Eltsin’.
Abbiamo qui di seguito raggruppato una selezione bibliografica, che senza la pretesa di essere esaustiva, costituisce una base di conoscenza per approfondire meglio vari aspetti della storia cecena e del Caucaso settentrionale.
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